I nove ostacoli secondo Patañjali
I nove ostacoli secondo Patañjali
Questo articolo nasce dal desiderio di comprendere meglio il senso dei nove ostacoli (antarāyas), descritti da Patañjali nel suo celebre testo Yoga Sūtra, e di come essi riguardino la vita di tutti noi, volenti o nolenti, direttamente o indirettamente, indipendentemente dalla pratica formale dello Yoga.
Nel suo saggio, Patanjali presenta lo Yoga come uno strumento per raggiungere uno stato mentale di beatitudine perfetto e immutabile, chiamato Samādhi. Nel Samādhi, la mente è libera da bisogni e desideri, e ci si percepisce completi. Inoltre, definisce “Yoga” anche il Samādhi stesso.
Yoga è sia il mezzo, sia il fine della pratica.
Patañjali ci suggerisce che la condizione di Samādhi è intrinseca in ognuno di noi, e che la pratica dello Yoga serve a riportarla alla luce della coscienza.
I Nove Ostacoli – Antarāyas (Sūtra I.30)
Il cammino verso il Samādhi non è semplice, il praticante incontrerà nove ostacoli principali (antarāyas), di natura sia fisica che mentale. Essi possono sorgere anche nella vita di chi non pratica Yoga, perché sono aspetti dell’esperienza umana:
Vyādhi – Malattia
Styāna – Apatia, mancanza di entusiasmo
Saṃśaya – Dubbio
Pramāda – Negligenza, disattenzione
Ālasya – Pigrizia
Avirati – Intemperanza, incapacità di controllare i sensi
Bhrāntidarśana – Visione errata della realtà, illusione
Alabdha-bhūmikatva – Incapacità di mantenere uno stadio raggiunto
Anavasthitatva – Instabilità, regressione
Questi ostacoli sono interconnessi tra loro e spesso causano sofferenza perché, nel momento in cui emergono, tendiamo a identificarci con essi, velando lo stato di beatitudine che è la nostra natura più profonda.
Una delle chiavi offerte da Patañjali per superare questi ostacoli è la consapevolezza, cioè la capacità di riconoscere l’ostacolo quando si presenta e osservarlo con distacco, senza farsi travolgere.
Ad esempio, è diverso dire “sono pigro” da “oggi mi sento pigro”.
Nel primo caso, ci identifichiamo completamente con la pigrizia, rendendola parte del nostro senso di identità. Nel secondo, la osserviamo come uno stato passeggero, che ci attraversa ma non ci definisce. Questo approccio coltiva quel distacco sereno (Vairāgya) necessario per proseguire nella pratica.
Gli strumenti: Abhyāsa e Vairāgya
Sūtra I.12, Patañjali ci offre due strumenti fondamentali:
Abhyāsa-vairāgyābhyāṁ tan-nirodhaḥ
La cessazione delle fluttuazioni (della mente) si ottiene con la pratica costante e il distacco.
Abhyāsa: esercizio costante, impegno disciplinato nel mantenere la mente focalizzata.
Vairāgya: distacco sereno, non-attaccamento al risultato, agli ostacoli, o agli stati piacevoli e spiacevoli.
Disciplina quindi, ma anche cura profonda della psiche.
Un altro strumento proposto, Sūtra I.29, è la meditazione sulla sillaba sacra Om̐, il suono primordiale.
La sua ripetizione porta calma mentale, rilassa il volto e offre un punto di appoggio alla pratica semplice e accessibile.
Giostrarsi tra le fluttuazioni della mente, le afflizioni e gli ostacoli, mantenendo equilibrio e consapevolezza, è l’azione dello yogin progredito. Non si tratta di fuggire dalla vita, ma di imparare a viverla in modo più consapevole, non reattivo, libero da identificazioni.
La pratica dello Yoga non si limita al tappetino: è una via per riconoscere e superare ciò che ci separa dalla nostra vera natura.
Immagina di meditare ogni giorno, (esercizio costante Abhyāsa) e di praticare con dedizione, ma senza essere concentrato sull'idea di "diventare illuminato" o su qualche obiettivo specifico, (distacco Vairāgya). La tua pratica è pura, ma non è legata al desiderio di ottenere qualcosa in cambio.
Questo equilibrio tra impegno e distacco ti permette di progredire nel cammino della vita e dello Yoga.